Alban Nikolai Herbst
La Bestia perenne
Elegie di Bamberga
Quarta elegia
Trovammo, ma senza tenerla. E fallimmo. Prese, baciandola, con mani la nostra testa. Vi rimase a lungo. Ma sempre svanisce quel ch’è nostro non appena è nostro. Sfugge per poi rimanere davvero: come qualcosa ch’è stato. Altrimenti, piegandosi, si perderebbe nel quotidiano. L’amore, amata mia, è troppo alto per le porte basse e, se spinto, si torce umiliato andando ginocchioni, e soffoca la sua superbia. E non lo sopporta.
Non ci accorgemmo di quel che facevamo? Quante volte, insieme, non ci siamo puliti i denti, le nostre mute cene, le attenzioni afflosciate come l’eco che risuona nella farina, quella nera per il pane che ci nutre, ma smussa: smussato il pane, smussato il cuore. Così mastichiamo. La bolletta della luce, l’affitto, il riguardo quotidiano, la spesa, scansati, come fossero profanazioni, i desideri. Le stanze troppo strette, avvertiamo la perdita, ma tacciamo la sventura. Perché dicendolo, tradimento sarebbe, uno pensa, l’attirerebbe evocandola. Poi, all’improvviso, ci troviamo di fronte estranei, ognuno verso di sé e verso l’altro. Allora te ne andasti.
Perdita, l’inizio del perenne. Ritrovati sesso e cuore quando eri andata via, e per questo tornasti. Addio e lacrime. Soffia e s’avvicina un vento che, uscito dalla Regnitz e estendendosi sopra il verde intenso del prato, sale il muro e, attraversando la ghiaia del terrazzo, arriva alla porta di vetro. Finché non ti respirano le finestre, la stanza, e non più niente che non pianga. Le sedie, la scrivania, gli scaffali. Un’acqua che, all’improvviso, si versa da sé in un pianto, perfino nell’angolo dove uno stava non facendo altro che cucinare. Da sé, e così scorre anche questo. Come se piangesse un altro. Non è possibile fermarlo, il dolore che nessuno, con tanto ritardo, comprende. Non eravamo staccati già da tempo? Lacrime senza singhiozzi che scorrono senza volontà. Come se, dietro le palpebre, qualcosa facesse acqua. Ma siamo n o i a piangere queste lacrime? E già smettiamo accorgendocene. Si screpolano le orme asciugandosi. Così presto ti fermi, tu, umiliata nella superbia che, p e r noi, hai versato lacrime d e n t r o di noi. Ahimè, che lei non afferri la lontananza!
Ascoltare inermi. Stiamo seduti. Ti ascoltiamo, noi smarriti in te, nascosti, nella gola irrigiditi. Vieni! Tu lo vuoi. E tu segui.
Aprendole poi, le palpebre già seccate, e lo sguardo evaporato. Come se si screpolasse la pelle al pari d’un ruscello asciutto. Nessuno più canta. Sulla ghiaia e sulle panche il sole che gioca. Per fare un po’ di fresco, uno scroscio lo abbandonò lì. Come se la Regnitz avesse inverso il suo corso e tu fosti stata gettata sulla riva, contro ogni corso del tempo.
Ci sono altri giorni, amata, che torni in immagini quasi improvvise, sconcertanti che, così impreparati come lo siamo anche noi, non si prestano a soddisfazioni. Così scuri i capelli, e come cascavano. Prendemmo per moglie la madre di cui, nell’infanzia, siamo stati privi. L’infanzia, sempre, vi si sovrappone. Andato! Le manca l’ascella, manca il tuo collo, il tuo orecchio e quella scia odor camelia, i profumi d’Arabia, i profumi di boschi tramontati. La berremmo se ci mangiassimo: entusiasti, dimentichi di ogni distanza. Ora soffia su dalla Regnitz, con insistenza contemplativa. Di nuovo inversa la corrente, uscita dalla diga, dallo sgorgare, dalla nebbia degli spruzzi d’acqua che, dispersa, libera il ricordo più doloroso: che la voce, la tua non taccia dolente come la passione adempiutasi. Non mi rassegno alla perdita. Use it or lose it. Il tuo corpo appesantito dal sonno, ancora sdraiato e in attesa. L’ha offeso il raffreddamento quando l’animale perenne, senza badarvi, lo scavalcò cercandosi la sua preda altrove, trovandola – perché il tuo odore era troppo familiare e un troppo essere a casa dove uno ama sì dormire, ma senza cacciare. Testosterone vagabondo! Che non ci l a s c i a né il nido, né l’ascella, né la casa nella quale, arrotolati, dormiamo.
La sedia viene spinta all’indietro. Abbiamo bisogno di riprenderci e ci alziamo, siamo nervosi. Nella porta schiocca il fiammifero. Così stiamo lì, fumando, la sciarpa tirata attorno al collo. La luce del sole ha finito di giocare. Una nuvolaglia a metà grigia si stende sopra il fiume, pende dai tetti come sacchi di iuta. Sotto, la frettolosa corrente, gli sporchi mulinelli nei quali, spinte verso l’autunno, ruotano le foglie. Due gradini, piccola rampa di legno resa viscida dalla pioggia. Ci mettiamo piede, raggiungiamo la ghiaia che cede scricchiolando. Non si sentono voci, non bambini, turisti neanche, appena qualche volta una macchina. In attesa perfino gli uccelli.
Cosa vuoi? Una pace protetta, buona per bambini perché sociale e perché si invecchia più facilmente? Protegge solo dalla paura della bestia perenne che vi irrompe che, inquieta, vaga a tradirci. Come stavi sdraiata sola! Ti venne il tuo dolore femminile sul labbro che, senza macula, era te e, sdoppiato, anche l’utero! Ma la bestia continuava ad aver fame. Ora sente la sindrome degli arti fantasma.
Ital. von Helmut Schulze
Das Buch erscheint im Elfenbein Verlag